Il Gran Cane e Pietro Pinca

Fedelmente redatta da Niccodemo Simonelli (1928) sui ricordi dei racconti appresi in infanzia da sua nonna Francesca Falconi (1868-1953).

Revisione con aggiunte letterarie e ricostruzione storica di Lauro Leporini.

Erano tempi di rivalità fra signori vicini, di prepotenze e nefandezze di ogni genere. Il diritto di banno lasciava ai signori locali l’arbitrario uso della giustizia e il potere di riscuotere salate tasse verso i loro sudditi; non meno pesante era il periodico esercizio, obbligatorio e gratuito delle cosiddette angherie da parte dei coloni nei possedimenti privati dei loro signori.
Molti secoli fa nella nostra zona spadroneggiavano: il Gran Cane, paternalistico feudatario [1] del vasto, boscoso ed aspro comprensorio di Cana, che pur pretendendo cieca obbedienza dai suoi servi e pur usando all’occorrenza la frusta, come all’epoca era di uso comune, non osava mai oltrepassare certi limiti e Pietro Pinca, detto “Pinco”, signore del piccolo, fertile e pianeggiante comprensorio del Castagnolo [2] che quanto a soprusi e cupidigia non venne mai sorpassato da nessun altro signore dei comprensori limitrofi [3] .
Una parte del territorio di Cana era confinante con quello del Castagnolo ed i litigi per i danni arrecati ad alcune colture canesi, poste sulle fertili pianure a sinistra del torrente Trasubbie [4], dovuti agli sconfinamenti del bestiame brado del Pinco, erano piuttosto frequenti, come frequenti erano gli altri motivi di rivalità che aggiunti al carattere prepotente del Pinco determinavano un continuo stato di tensione. Al Gran Cane, inoltre, non era ancora passata l’arrabbiatura presa nell’ottobre dell’anno prima, durante l’ultima festa da egli indetta in Cana presso il sottostante Campo della Corte [5] , con giochi equestri e relativo banchetto. Nell’affollata festa nobiliare, alla quale parteciparono tutti gli invitati, cioè gli altri vassalli del magnifico conte palatino, signori dei territori limitrofi, molti dei quali congiunti del Gran Cane, riuscì a passare ai distratti controlli delle indaffarate guardie canesi l’indesiderato Pinco, il quale una volta intrufolatosi, forse da una porzione meno fitta dell’ampia ed incolta siepe di delimitazione, dopo aver bevuto qualche bicchiere di buon vino novello aromatizzato, appositamente preparato per l’occasione, barcollante e paonazzo in volto, prima di essere scoperto, preso a calci e poi brutalmente cacciato dalle guardie, si mise ad importunare alcune madame ed a fare lo strafottente con alcuni messeri.
Un giorno il Gran Cane, stufo, decise di porre fine a tutto questo. A tale scopo, ordinò ai suoi massari di comportarsi nel seguente modo in caso di nuovi sconfinamenti: prelevare il bestiame, chiuderlo nelle stalle ed avvisare Pinco di ciò ed intimargli di sborsare 100 fiorini d’oro [6] come penale per rientrare in possesso del bestiame. Se i massari non avessero agito così sarebbero incorsi nella punizione di 30 frustate ciascuno. Lo sconfinamento avvenne nuovamente ed i contadini agirono come pattuito.

Pinco, con l’arroganza e la prepotenza che lo contraddistinguevano, fece sapere al feudatario canese, attraverso un messaggio inviato ai massari dello stesso, che non solo non avrebbe pagato la penale ma che avrebbe tenuto prigioniero il massaro, latore del messaggio, fino a quando non gli fosse stato restituito il suo bestiame. Il Gran Cane, consapevole che il Pinca non avrebbe potuto competere con lui con la forza, fece sellare, imbrigliare e bardare il suo cavallo dal fido servo-scudiero, si infilò le brache di cuoio ed il giaccone di lana, si infilò gli stivaloni di cuoio, indossò la sua vecchia cotta di maglia, quindi la bianca tunica di cotone con lo stemma di famiglia cucito sul petto, si strinse ai fianchi la cinghia con il pugnale, indossò le manopole in cuoio e s’infilò il cappello di ferro in testa. Inoltre, consegnò allo scudiero, che sistemò sul proprio mulo, la cinghia con lo scalfito spadone, l’ammaccato elmo e le malconce armi: lo scudo, la mazza e la balestra con i relativi bolzoni. Partì da Cana una fresca e profumata mattina di primavera con la sua ridotta compagnia di massari-masnadieri, chi a piedi chi con cavalcature anche di fortuna, “corazzati” alla meglio ma ben forniti delle seguenti rabberciate armi: lance, falcioni, asce, fionde, scudi e pavesi di vimini. Gli “armigeri” furono fatti appostare sul lato sinistro del torrente Trasubbie e gli fu ordinato di accumulare subito delle pietre per l’eventuale sassaiola. Il Gran Cane fece quindi avvisare il Pinco, tramite due suoi soldati a cavallo, che egli era risoluto ad intraprendere un’ardita cavalcata di rappresaglia nelle sue terre se non avesse immediatamente rilasciato il massaro che teneva prigioniero e pagato la penale. Pinco dovette fare buon viso a cattiva sorte, dominando la rabbia che lo consumava a beneficio di un ben congegnato progetto di vendetta per lo smacco subito. Egli si decise, quindi, a liberare il massaro ed a pagare la penale richiesta, poi si recò subito alle Trasubbie dal Gran Cane e con finta umiltà accordò con esso il giorno in cui poter desinare insieme presso il Castagnolo per poter parlare dei loro problemi ed eliminare le controversie che li dividevano, promettendogli, infine, che d’ora in poi si sarebbe comportato correttamente anche nei confronti di tutti i signori del vicinato. Il Gran Cane accettò l’invito.
Passata una settimana, giunto il giorno prestabilito, una piovigginosa ma mite mattina d’aprile, insieme al suo fedele gastaldo di corte e tutto il suo seguito armato, il Gran Cane partì da Cana per recarsi al Castagnolo. Questa volta però si era corazzato più alla leggera, infatti sotto il nero mantello con il cappuccio sotto il cappello di ferro, aveva il pesante coietto in cuoio a protezione del busto. Giunti alle Trasubbie, non fidandosi delle promesse del Pinco dette disposizioni alla masnada di accamparsi lì e di entrare in azione ed invadere con la forza i possedimenti del rivale se alla prestabilita ora non avesse fatto ritorno. 

Il Gran Cane, il gastaldo e lo scudiero, giunti che furono nelle vicinanze della collinetta calcarea sulla quale si erge l’arcigno e tozzo torrione brunastro del Castagnolo, dimora del Pinca, vennero intercettati dai rudi membri del corpo di guardia dello stesso, che una volta identificati li fecero entrare nel cortile murato del fortilizio. Gli ospiti furono ben accolti dai servi del Pinco, i quali provvidero subito ad asciugarli ed a sistemare le loro cavalcature. Le armi e le cose del Gran Cane furono gelosamente custodite dentro la stalla, all’interno del cortile, dallo scudiero.

Gli ospiti furono poi introdotti nel buio ed umido piano terra del torrione ma dopo un po il Gran Cane non vedendo Pietro ad accoglierlo, pensando ad un paventoso tranello, si mosse insieme al gastaldo prendendo tutte le precauzioni possibili onde poter reagire ad ogni evenienza. All’improvviso si fece avanti la scorbutica moglie del Pinco che fra sonori ceffoni ed imprecazioni “elargite” ai suoi scalmanati piccoli figli  che gli erano accorsi appresso, informò gli ospiti in modo assai veloce quanto villano,  sull’assenza di suo marito, gravemente ammalato fin dal primo mattino. Il Gran Cane a questo punto volle maggiori spiegazioni e quindi fu introdotto nel terzo piano del torrione presso la camera del padrone di casa. Il Pinco, disteso sul suo letto a baldacchino, dentro alle coperte, si scusò per l’inconveniente arrecato ai suoi ospiti e li pregò di passare nella sala da pranzo per consumare da soli il pasto che gli era già stato preparato, perché lui non poteva partecipare, i forti dolori di stomaco che da qualche giorni lo affliggevano gli consigliavano di digiunare e gli impedivano, addirittura, di muoversi dal letto. Il feudatario di Cana avrebbe pensato ancora una volta ad uno dei suoi tiri mancini se non avesse notato il vistoso stato di sofferenza del Pinco e presi accordi per un successivo incontro fu fatto scendere, insieme al suo gastaldo, nella sala da pranzo collocata al primo piano. Il Gran Cane mangiò di buon gusto le prelibate vivande che gli furono preparate. Naturalmente dopo che il gastaldo ebbe assaggiato tutte le portate.

Durante il pranzo, il Gran Cane, notò che uno dei servi del Pinco era particolarmente gentile con lui e per questo, al momento di salire in sella per tornare a Cana, volle donargli una moneta d’oro. Il servitore nel ringraziarlo del dono gli mormorò sottovoce, per non essere udito dagli altri, che appena gli era possibile di nascosto si sarebbe recato a Cana per parlargli di cose molto importanti.

Dopo alcuni giorni, una calda mattina, il servitore di Pietro Pinca si presentò presso la vigilatissima porta del borgo [7] del castello di Cana chiedendo alle guardie di poter parlare con il Gran Cane. Passato il dovuto tempo per l’identificazione fu fatto entrare. Scortato, oltrepassò l’alto torrione [8] e varcò la soprastante porta della robusta cinta muraria [9] dell’erta fortezza di Cana. Entrato nel piccolo ma laborioso castello fu condotto presso la vetta e quindi introdotto nell’antiporta del gagliardo e compatto cassero biancastro [10]. Dopo i convenevoli inchini al signore ed alla sua garbata consorte, vistosamente in dolce attesa e visibilmente preoccupata, il servo confessò al feudatario che Pinco era un malvagio inguaribile e che nulla di sincero ed amichevole ci si doveva attendere da lui. Aveva mentito anche il giorno di quel pranzo perché non di mal di pancia si trattava ma di una grave ferita subita in uno scontro a due con il signore del Cotone il quale aveva violentemente reagito alla proposta del Pinco di schierarsi con lui nella lotta contro il potere e la rispettabilità del Gran Cane, con il quale, invece, era legato da antica e profonda amicizia. 

Spiegò poi che il nuovo invito al Castagnolo, che presto gli sarebbe arrivato, avrebbe nascosto i malvagi piani di rivincita di Pinco, il cui scopo era quello di gettare il Gran Cane nell’ormai famoso trabocchetto, [11] ove ruote con coltelli e punte acuminate lo avrebbero ucciso e fatto sparire così come era avvenuto per gli altri signori che si erano opposti ai suoi torbidi disegni. Il trabocchetto, spiegò che si trovava sotto la sedia posta davanti allo scrittoio, nella stanza privata del Pinco, accanto alla sala da pranzo. Il malvagio, seduto dall’altro lato, sollevando una leva nascosta dietro una cassa di legno, poteva azionare il congegno, ideato e costruito da lui stesso, facendo così aprire una botola, coperta da un drappo ornamentale di lana rossa, posto sul pavimento sotto la sedia dell’ospite, facendo quindi cadere nel vuoto lo sventurato di turno.

Dopo alcuni giorni arrivò il nuovo invito. Giunto il giorno prefissato dal Pinco, una calda ed assolata mattina di maggio, il Gran Cane, lasciata ancora una volta la sua “armata” alle Trasubbie, si presentò per l’ora di pranzo, questa volta solamente con lo scudiero, presso il fortilizio di Pietro Pinca. Appena terminati i rituali saluti fu servito il lauto pasto nell’apposita sala. Zuppa di cereali e legumi coltivati nelle assolate pianure circostanti, condite con il delizioso e finissimo olio del Pinco, saporiti arrosti di carne di maiale, capra e vitello allevati nei pascoli delle boscose colline del Castagnolo, confinanti con i relativi pascoli collinari di Cana e Stribugliano, per contorno una deliziosa crema di asparagi selvatici, freschi di stagione, raccolti nei dintorni, una pagnotta di prelibato pane bianco, una squisita crostata di fichi appassiti provenienti dai vecchi ma rigogliosi alberi nati ai bordi del torrente Melacciole [12] , fatta con farina, uova d’oca e miele, tutto proveniente dalla riserva rurale privata del Pinco, accompagnati dai corposi quanto deliziosi vini, rosso e bianco, provenienti dalle assolate vigne dello stesso, rinvigorirono le affaticate membra dei due maneschi signori. 

Terminato il luculliano pranzo, dopo essersi asciugati le rispettive incolte barbe castane, la soporifera pausa post-pranzo, consumata volentieri da entrambe seduti su un’insicura panca addossata ad un lato della scarna sala, fu accompagnata dalle “gravi note” dei malcelati sfoghi delle reciproche pressanti arie intestinali, interrotte soltanto dai loro singhiozzi e dalle brevi frasi del dialogo di circostanza, volto sulle relative enfiate capacità venatorie.
Circa un’ora dopo, Pinco, invitò l’ospite a seguirlo nella sua stanza privata, onde poter parlare indisturbati dei loro rapporti di vicinato. Era la stanza del trabocchetto, o come diceva egli stesso: “…La stanza della morte dalla quale non si esce né vivi né morti, ma si passa direttamente, anima e corpo, nel profondo dell’inferno!…”.

Il Gran Cane, che conosceva nei particolari quella stanza, spostò la sedia presso un altro lato dello scrittoio e si sedette per iniziare “l’amichevole” conversazione della quale già conosceva, in modo sommario, l’epilogo. Pinco, stupito del gesto, chiese al Gran Cane il motivo, sostenendo che riteneva preferibile avere di fronte e non al lato le persone con le quali doveva colloquiare. L’ospite, con una punta di ironia rispose che voleva ben sentire le sue parole e ben vedere le sue mosse, per questo gli sembrava che dove adesso si trovava fosse la migliore posizione. Il Cattivo ebbe allora la percezione che il Gran Cane conoscesse i misteri di quella stanza, cosa che avrebbe fatto fallire il suo piano criminale. Pinco, a questo punto, cominciò a pensare di dover spingere l’interlocutore nel trabocchetto con la forza, seppur la mole, l’altezza e di conseguenza la forza del Gran Cane, superiori alle sue, non dessero garanzie per la buona riuscita del gesto. Il Malvagio cominciò ad innervosirsi e a dire frasi senza senso, sicché, quando il Gran Cane gli annunciò che anch’egli era al corrente dei tanti crimini commessi in quella stanza andò fuori di senno, azionò immediatamente la leva del trabocchetto e dischiusasi la botola afferrò l’avversario per un braccio e violentemente ve lo protese.

La mossa però non ebbe il risultato sperato, l’aitante Gran Cane non fu minimamente spostato da dove si trovava, gli fu stracciata solamente la manica della camicia che portava sotto il coietto e con quella in mano, per effetto della forza impressa dal movimento, fu Pinco a cadere nel trabocchetto, dando nuovo vigore all’evangelica frase: “…Chi di spada ferisce di spada perisce…”.


NOTE DELL’AUTORE:
Da alcuni particolari della leggenda, tramandataci dagli anziani di Cana, ritengo che essa abbia un piccolo fondo di verità e quindi sia stata ispirata da due signori locali realmente esistiti fra la seconda metà del secolo XIII e gli inizi del secolo XIV, naturalmente non aventi quei nomi. La presenza del Fiorino d’oro, coniato per la prima volta nel 1252 dalla Repubblica di Firenze, la distinzione dei due personaggi in feudatario e signore e la presenza di un signore del Cotone, la cui esistenza è nota, ad oggi, sin dagli inizi del secolo XIV, potrebbero sostenere questa ipotesi di collocazione storico-temporale.
Per la parziale ricostruzione storica della leggenda mi sono stati preziosi i seguenti volumi: Enciclopedia araldico-cavalleresca, prontuario nobiliare, di Goffredo Di Corollanza, Arnaldo Forni editore, Bologna, 1999, pagg. 59, 71, 528 e Dizionario del medioevo di Alessandro Barbero e Chiara Frugoni, Roma-Bari, GLF, Laterza, 2005, pagg. : 20, 26, 27, 114, 115, 116, 117, 226, 227, 228, 252, 253, 254. Il medioevo di Giovanna Piccininni, Bruno Mondadori, 2004, Pagg.: 68 e 162.
———————–
Note:

[1]: “feuto” era la parola originale, ovvero feudo cioè feudatario; così dicono in dialetto i canesi più anziani. Ha il significato tramandato nei secoli di vassallo-signorotto, scaltro e tiranno. Il termine è attribuito anche ad una persona prepotente e molto furba. Per un’eventuale riscontro vedere: Vocabolario Amiatino di Giuseppe Fatini, vocabolari e glossari pubblicati dall’Accademia della Crusca, G. Barbera editore, 1953 (edizione originale, posseduta da chi scrive), pag.: 49, voce: fèudo – fèuto.

[2]: Si trova presso le campagne a Nord-Ovest del paese di Cana, a circa 3,5 km in linea d’area da esso. Cartina topografica I.G.M.I, foglio 128 – Cana – scala 1:25000, rilievo 1941.

[3]: Cana, denominata “Roccham ad Canam” (così è scritto nell’atto originale della prima divisione fra fratelli aldobrandeschi; fonte: I castelli nella Toscana delle “città deboli”, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Progetto “Archeologia dei Paesaggi Medievali”, All’insegna del Giglio, 2007, cd-rom allegato: sito n°36.3, voce: Cana -Com. Roccalbegna-) nel 1216, anno della prima menzione storica del nostro paese, citato nella divisione fra i quattro fratelli Aldobrandeschi avvenuta sotto l’auspicio del Comune di Orvieto, venne attribuita al conte Ildebrandino Minore. Fu denominata semplicemente “Canam”, invece, nella seconda divisione fra i due fratelli Aldobrandeschi del 1274, passò ad Ildebrandino di Bonifacio I entrambi conti palatini di Santa Fiora. In questa divisione venne inserita fra le “…baronie…”, ovvero, “feudi di signoria” (espressione di Giovanni Tabacco). Ad oggi non si hanno più notizie di Cana fino ad un documento testamentario del 1374 di “…Mei de Messere Dini…” dei “…Nobilibus de Cana…”, vi si legge che egli era fratello di “…Bernardino…” di Cinigiano (da li proveniva anche lui) e marito di “…Milla…”,una figlia del conte Giovanni Aldobrandeschi di Santa Fiora e padre di “…Maria…”, moglie del conte Bernardo di Battifolle (figlio di Guido e nipote di Ugo; fonti: E. Repetti e varie di M. Bicchierai), in quel testamento viene citato, ad oggi per la prima volta, chiaramente e più volte il “…chassaro di Chana…”; archivio di Stato di Siena, “diplomatico dei resti ecclesiastici, compagnie”, 7 ottobre 1374, n° 1043.
Castagnolo, “Castagnolu”, nel secolo XI fu un feudo dei signori di Scudellano ( un castello posto su una collina sopra il torrente Melacce nel Comune di Cinigiano, il cui rudere è tutt’oggi visibile nei pressi della località Anteata, vicino al Granaione, quest’ultimo nel Comune di Campagnatico). Nell’anno 1059, con una cerimonia, l’abate Mauro dell’abbazia di San Salvatore e Raineri, figlio di Ildebrando di Raineri di Scutellano consegnano a Lamberto di Castagnolo una carta facendolo diventare suo vassallo. In quella carta erano elencate le proprietà di Rainieri presso la corte e castello di Montepinzutolo (Monticello Amiata) e di “de Ballatorio” (la prima menzione storica della Pieve di San Giovanni del Ballatoio, si ha nell’anno 1188 sulla Bolla di papa Clemente III, oggi, il suo sito più accreditato è il pod. La Pieve, sito nel territorio di Stribugliano nel Comune di Arcidosso). Queste le modalità: se Raineri o i suoi figli fossero morti senza eredi Lamberto o i suoi eredi avrebbero dovuto rendere la carta al monastero di San Salvatore ma se Lamberto non avesse voluto rendere la carta per “…male ingenio…”, il monastero sarebbe automaticamente entrato in possesso di una parte della corte e castello di Castagnolo, anch’esso, così menzionato, in quella carta. Raineri, però, non morì senza eredi poiché nel 1094 sono citati come testimoni degli Aldobrandeschi i suoi probabili nipoti, Guido e Bernardo, figli di Ugo di Scudellano. Nel secolo XII il Castagnolo o parte del suo territorio potrebbe essere stato una o più delle 18 mansio di proprietà del monastero di Sant’Ambrogio di Montecellese di Siena poste nel territorio di Stribugliano, prese in affitto da Guglielmo e Bernardino di Cinigiano (fonte: Il castello di Arcidosso e la Valle dell’Ente nella formazione dell’Amiata medievale di Nello Nanni, tipografia Ceccarelli 1999, pagg. 46 e 88). Infine, da un atto del 1279 sappiamo che il Castagnolo era all’epoca un possedimento della famiglia signorile senese degli Ardengheschi (fonte: cd-rom, repertorio storico archeologico dei castelli della toscana meridionale,sito n° 36.4, voce: Castagnolo (Com. Roccalbegna), allegato al libro di Roberto Farinelli, i castelli nella Toscana delle “città deboli”, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Progetto “Archeologia dei Paesaggi Medievali”, All’insegna del Giglio, 2007. Si perdono, a questo punto, le tracce del Castagnolo fino al secolo XVI. Nel monumentale e blasonato volume: 47.4. Castagnolo a pag. 382, riferisce addirittura che del fortilizio del secolo XI oggi resta (…) soltanto il volume con base a scarpa su due lati, ma talmente rimaneggiato da renderlo del tutto illeggibile (…). Si tratta di parte del lato sud e del lato ovest del grande edificio principale. Una tradizione orale degli abitanti del Castagnolo, tramandata nei secoli, sostiene che un tempo ivi ci sia stato un convento di monache. Nello stretto ma lungo edificio a due piani, dove tutt’oggi c’è l’arco d’ingresso per entrare nel cortile, vi sarebbero state ubicate le celle delle religiose. I territori di Cana e Castagnolo fanno oggi entrambe parte della frazione di Cana nel Comune di Roccalbegna.
I castelli, realmente esistiti nella seconda metà del secolo XIII, confinanti con quelle due località, erano:
1. Campagnatico “Canpangniatico”, appartenente in parte agli Aldobrandeschi e parte ai Visconti di Campiglia d’Orcia poi al posto di quest’ultimi subentrò la
Repubblica di Siena.
2. Sabatina “Colle Sabatino”, nel secolo XIII vi aveva una grancia l’abbazia di San Galgano poi parte dei terreni furono acquistati dalla Repubblica di Siena, nel 1279 vollero fondarvi un castello ma l’esperimento fallì nel 1295. Nel 1273, nel periodo in cui fu assassinato Enrico d’Inghilterra, fu il rifugio di Guido di Monfort, uno dei mariti della contessa Margherita Aldobrandeschi. Oggi è nel Com. di Campagnatico.
3. Cinigiano “Ciniscianum”, “baronia” appartenente agli Aldobrandeschi, quota di Ildebrandino XI.
4. Stribugliano “Stribullianum”, “baronia” appartenente agli Aldobrandeschi, quota di Ildebrandino XI. Oggi è nel Com. di Arcidosso.
5. Roccalbegna “Roccam Albineam”, “baronia” appartenente agli Aldobrandeschi, quota di Ildebrandino XII, dalla fine del secolo XIII appartenne interamente alla Repubblica di Siena.
6. Rocchette di Fazio “Castrum Rocchette”, rimase indiviso ma appartenne agli Aldobrandeschi. Fu uno dei più importanti castelli di quelle famiglie. Alla fine del secolo XIII appartenne al ramo dei conti di Santa Fiora e agli in inizi del secolo XIV fu sottomesso alla Repubblica di Siena. Oggi è nel Comune di Semproniano.
7. Saturnia “Saturniam”, dominio diretto, appartenente agli Aldobrandeschi, quota di Ildebrandino XII. Alla fine del secolo XIII fu sottomesso ad Orvieto, passò per breve tempo ai Baschi, signori di Montemerano ed agli inizi del secolo XIV entrò nei possedimenti degli Orsini di Pitigliano. Oggi è nel Com. di Manciano.
8. Cotone “Cotono”, questo castello non appartenne ai conti Aldobrandeschi, nel ‘300 appartenne ad una dinastia di nobili senesi, i Cotoni, imparentati con i signori di Montorgiali. I ruderi del Cotone sono tutt’oggi visibili su un colle fra le campagne fra la settecentesca Polveraia ed il cinquecentesco castello di Montepò. Oggi è nel Com. di Scansano.
I nomi delle località sopra elencate in latino medievale ed evidenziati in grassetto, eccetto l’ultima, sono ripresi dalla divisione fra i due fratelli Aldobrandeschi del 1274 determinante l’origine delle due “contee” e casate aldobrandesche denominate, “di Santa Fiora”, Cana, Stribugliano e Cinigiano furono loro castelli e “di Sovana”, vedere fra le tante pubblicazioni: Gli Aldobrandeschi nella storia maremmana di Ippolito Corridori, Editrice Laurum, 2004, pag.: 65, 66, 99, 102-105, Gli Aldobrandeschi: la grande famiglia feudale della maremma toscana, a cura di Mario Ascheri e Lucio Niccolai, Arcidosso, C&D ADVER, 2002, pagg.: 222, 223; per la storia dei vari castelli: I castelli nella Toscana delle “città deboli”, Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Progetto “Archeologia dei Paesaggi Medievali”, All’insegna del Giglio, 2007, vedere nel cd-rom allegato, sito n° 3.3, Colle Sabatino – oggi La Sabatina, Com. Campagnatico, GR- , sito n° 22.9 Saturnia – Com. di Manciano-, sito n° 36.1 Roccalbegna (GR), sito n° 47.9 Rocchette di Fazio -Com.Semproniano, GR) . Il toponimo Cotono è stato preso, invece, dal documento di sottomissione di Cana alla Repubblica di Siena del 1381, arch. di Stato Siena, Capitoli III°, voce: Cana, anno 1381, per la sua storia: I castelli del senese -Strutture fortificate dell’area senese-grossetana- di Paolo Cammarosano e Vincenzo Passeri, nuova immagine Siena, 2006, sul repertorio, alla voce, 55.2. cotone, pagg.: 415 e 416.

Il docente e ricercatore di storia medievale dell’università di Pisa, Simone M. Collavini nel suo libro, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”: gli Aldobrandeschi da “conti” a “principi territoriali” – secoli IX-XIV -; Pisa, ETS 1998, pag.: 239, 245, 251, 252, 457 e nota 79, 459, 460, 540 e nota n° 99, afferma che i domini di Cinigiano, il cui capostipite fu un certo, Stratumen, figuravano fra i più importanti vassalli degli Aldobrandeschi e furono una vera e propria signoria. Bernardino I, nell’anno 1164 fu nominato dagli Aldobrandeschi, vicecomes e membri della stessa famiglia apparirono, fino agli anni venti del secolo XIII, come testimoni in molti importanti atti notarili degli aldobrandeschi. Scrive il Collavini: (…) godettero di notevoli poteri giurisdizionali sulla popolazione rurale; ma la loro principale risorsa, accanto alla percezione dei proventi signorili, consistette nell’affitto dei pascoli del loro dominato e nella protezione garantita al bestiame che vi si recava. (…). Nei primi anni del secolo XIII: (…) il conte (Ildebrandino VIII) aveva il diritto di fissare i prezzi, di limitare o impedire la vendita del sale da parte degli abitanti della contea e deteneva il monopolio della vendita al dettaglio, rispetto al quale sembra valere la sola eccezione dell’area infeudata ai signori di Cinigiano: (…), cioè, (…) Guglielmo di Cinigiano avrebbe potuto comprare 60 moggi di sale a un prezzo inferiore alla norma di 2 denari il moggio, probabilmente per poi rivenderlo nelle proprie signorie.(…). Il Collavini, sostiene in definitiva, che all’inizio del secolo XIII, i domini di Cinigiano abbiano vantato diritti anche su Cana e Stribugliano, insieme ai loro congiunti signori di Roccalbegna.
Il termine baronia, scrive il Collavini, si diffuse nell’ambito delle contee aldobrandesche nell’ultimo quarto del secolo XIII per indicare questo tipo di feudi, era, in concreto, un diritto giurisdizionale vantato dai conti sopra a quelli della signoria. Le baronie furono (…) uno strumento impiegato soprattutto per integrare nell’ambito politico del principato territoriale potentati sviluppatisi autonomamente, sebbene i rapporti con i conti di alcune delle famiglie di domini risalissero all’inizio o almeno alla metà del XII secolo e benché tali rapporti non fossero stati assolutamente secondari nello sviluppo e nell’affermazione delle loro prerogative signorili. Del resto per gli Aldobrandeschi non mancano neppure concessioni capaci di immettere personaggi nuovi come signori di alcune località.(…). Una delle cause principali che portarono gli Aldobrandeschi, sin dal secolo XII, all’ampio sviluppo della loro contea e quindi dell’infeudamento delle varie signorie locali, fu la volontà di controllare direttamente ed esclusivamente, le tre risorse economiche di tipo naturale, altamente remunerative, presenti nel territorio maremmano o comunque della estesa contea, cioè: la produzione e la vendita del sale, l’estrazione e la vendita dei metalli nobili (una secondaria cava estrattiva era pure nel territorio di Roccalbegna) e la gestione economica dei vasti pascoli e territori incolti visto il crescente sviluppo della transumanza ovina, nei mesi invernali, proveniente da gran parte dell’appennino tosco-emiliano e tosco romagnolo. A proposito di quest’ultimo punto, il Collavini, ci da una schematica ma importante descrizione circa la struttura fisica dei vari territori presso i quali era previsto il transito e lo stanziamento delle varie greggi transumanti: (…) la fortuna della transumanza accentuò il carattere accentrato degli insediamenti, il largo spazio lasciato all’incolto fra un castello e l’altro e l’equilibrio fra i vari centri demici, rafforzando così i caratteri già in precedenza tipici della contea e di tutta la Maremma. (….). Fonte: Gli Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma toscana, a cura di Mario Ascheri e Lucio Niccolai, Genius Loci, C&P Adver effigi, 2002, pagg.: 24-25 e 34-35. 

Nello Nanni nel suo libro, Il castello di Arcidosso e la valle dell’Ente nella formazione dell’Amiata medievale, tipografia Ceccarelli, 1999, pagg. 86 e 88, afferma che Stratumen, capostipite dei signori di Cinigiano, sia appartenuto alla famiglia dei signori di Scutellano, soprattutto in base al fatto che: (…) l’ultima citazione dei signori di Scutellano (Bernardo e Guido nel 1094) precede di pochi anni la comparsa dei signori di Cinigiano (Stratumen nel 1121) (…). Afferma, inoltre che Stratumen sia stato il padre di Bernardino I (il vicecomes) ed in linea con il Collavini anch’egli suppone che i signori di Roccalbegna, Stribugliano e Cana siano appartenuti alla stessa famiglia dei signori di Cinigiano, così come alcuni dei signori di Castiglioncello Bandini succedutisi negli anni. Conferma, ulteriormente l’ipotesi che in Cana nel duecento abbiano vantato dei diritti i signori di Cinigiano anche le ricerche dell’equipe di Roberto Farinelli, pubblicate sul suo libro:).

Il documento testamentario, da me studiato, di Meio di Messere Dino, nobile di Cana, della fine del secolo XIV (scritto in volgare), sopra citato, reca conferme alle ipotesi del Collavini, del Nanni e del Farinelli. Questi gli indizi maggiori: Meio, oltre che essere signore assoluto di Cana, era anche signore di Cinigiano (suo fratello Bernardino all’epoca del testamento era già morto e suo figlio, probabilmente orfano anche di madre, non aveva ancora 18 anni, non poteva cioè succedergli), aveva diritti in Stribugliano e possedeva, “…el colto…” ovvero delle terre coltivate ed altri irrilevanti beni in Roccalbegna. Inoltre, si raccomandava con i suoi “…fedeli commessari…”“…che adomandino e riceuano…” “…-LX- fior doro…” “…dal Passchuto e da Cambio signori de Paschi di Siena…” “…per una vendita che lofeci de miei paschi di Cinigiano e Chana e Stribugliano…”.

E’ da tenere presente, inoltre, che nella divisione fra i quattro fratelli Aldobrandeschi dell’anno 1216, Roccalbegna, Cana, Stribugliano e Cinigiano figuravano nella quota appartenente ad Ildebrandino Minore (figlio minore di Ildebrandino VIII), sepolto presso l’antica chiesa di San Pietro a Grosseto. Mentre Castiglioncello Bandini era sotto la quota di Bonifazio, primo conte di Santa Fiora.
Dalle Rationes decimarum degli anni 1276-77 della diocesi di Sovana abbiamo la prima menzione storica della “…chiesa di San Martino di Cana…” (San Martino vescovo di Tours è lo storico santo patrono di Cana ab immemorabili). E’ probabile che la nostra chiesa, fino a quel periodo ed anche oltre, sia stata alle dipendenze della Pieve di San Giovanni del Ballatoio (vedere: La Santa Chiesa sovanese, le origini del
vescovato e la traslazione da Statonia (Grotte di Castro) a Sovana, di Vittorio Burattini, a.t.l.a., Pitigliano, 1997, pagg.: 83, 84 e 87).

[4]: A circa 2 km in linea d’area dal Castagnolo. Questo torrente nasce a circa 2 km in linea d’area dal paese di Stribugliano, a circa 1000 metri s.l.m.. Cartina topografica I.G.M.I, foglio n°320 sez. III – Cinigiano -, scala 1:25000, edizione 1992, ricognizione del 1989.

[5]: Secolare (archivio di Stato di Grosseto, “fondo Comune di Roccalbegna”, pezzo n°14, “Cana Memorie”, vedere in questo, “Libro della Lira” del 1559) e suggestivo toponimo di un vasto terreno agricolo, esposto a Nord, spazioso e pianeggiante che si trova in fondo al paese, nello scosceso rione detto borgo. Oggi vi è un oliveto. Questo episodio è stato totalmente inventato da chi scrive per mettere in risalto il carattere prepotente del Pinco, elemento marcatamente sottolineato nella leggenda orale originale.

[6]: Il Fiorino d’oro, coniato a Firenze dal 1252 al 1530, fu poi coniato anche da altri stati italiani ma quello fiorentino mantenne pressoché invariato il peso dell’oro per tutta la sua plurisecolare vita, proprio per questo, era ritenuto una moneta sicura al pari del ducato di Venezia. Fu ampiamente usato in Italia, in Europa ed in Asia (La moneta medievale in Italia -da Carlo Magno al Rinascimento- di Andrea Cavicchi, Gruppo Archeologico Romano, 1991, pag.: 101 e Il medioevo di Gabriella Piccininni, Bruno Mondadori, 2004, pag.: 162).

[7]: Nei tramandati ricordi degli anziani del paese è posta a metà della strada, oggi in parziale disuso, che anticamente collegava l’odierno borgo con il torrione e la fortezza. La detta porta è rammentata per la prima volta su documento nello statuto della comunità di Cana del 1486 presso la parte I°, nella rubrica, I,25, denominata: Della elezione dei Portonai, et del loro offizio. Fonte: archivio di Stato di Siena, presso, statuti del Contado, n°24, -Cana 1486-. La suddetta porta, a mio avviso, doveva servire a collegare il primitivo e scosceso borgo murato canese posto a Sud-Ovest, esposto al sole (particolare non di poco conto per dovervi passare gli inverni in epoca medievale). Ancora oggi, al di sotto della suddetta strada, in luogo scosceso, si possono notare delle porzioni di muri crollati di umili residenze.
A supporto della mia ipotesi sulla porta ed il borgo murato, sull’Atlante dell’edilizia medievale -Inventario- Volume I .1, Comunità montana Amiata grossetano, Comunità montana Colline del Fiora, -I centri storici-, a cura di Michele Nucciotti, edizioni effigi, senza data, presso la scheda: Cana sito 10116 a cura di Riccardo Bargiacchi, a pag. 88, si legge, al riguardo di quel che a vista appare un fatiscente muraglione ad “L” posto al bordo della suddetta strada in disuso, 70 metri sotto al torrione, unito ad una pericolante, antica e stretta stalla o cantina a due piani, che: “…sembra appartenere ad una costruzione che, per la tecnicha muraria, potrebbe avere avuto funzione difensiva (forse come muro di cinta più esterno)…”. Gli è stata attribuita, inoltre, una tipologia di tipo militare. La suddetta pubblicazione, ad oggi, non è mai stata stampata, si può comunque reperire sul web in: centri.univr.it/rm/biblioteca/scaffale/volumi.htm, oppure presso l’editore.

[8]: E’ posto sull’omonima via. Un tempo rimaneva sopra a quello che io considero essere stato il primitivo borgo canese (vedi nota 7). A mio avviso, doveva essere un forte militare di guardia al soprastante cassero ed al borgo ed eventuale rifugio per i suoi abitanti in caso di assedio o di attachi esterni, nonché a protezione della soprastante porta del castello. Dovrebbe essere quello rammentato nello statuto della comunità di Cana (vedere nota 7), presso la parte I°, nella rubrica, I,21, denominata: Che el Messo bandisca i luoghi usati. Al piano terra del torrione (al lato della strada in disuso), sopra a tre gradini, si può notare, al centro della struttura, un grande portone con imposte in pietra calcarea locale conciata e sopra un bell’arco a sesto acuto in cotto.

[9]: E’ l’unica porta del castello giunta fino a noi. A mio modo di vedere, vista la sua posizione, doveva essere l’unica esistente durante il periodo medioevale per entrare nel fortilizio. Chi voleva entrarvi ed era proveniente dalla montagna il percorso che doveva seguire, una volta arrivato nell’odierna piazza del Popolo, doveva essere quello di circuitare le mura del fortilizio partendo dall’attuale via Diacceto. Mentre chi arrivava dal Castagnolo o dalla Maremma, l’ingresso doveva essere più diretto (porta di borgo, torrione e porta). Comunque, in entrambe i casi, dall’alto del fortilizio, chi voleva entrare sarebbe stato perfettamente visibile e quindi facile da intercettare. In origine, a mio avviso, l’antiporta doveva essere più breve. Doveva essere la porta di Mezzo nello statuto della comunità di Cana (vedi nota 7) presso la I° parte, nella rubrica I,25, denominata. Della elezione dei Portonai, et del loro offizio.

[10]: Il sito del cassero medievale, secondo le mie ricerche, è costituito essenzialmente da due robusti edifici paralleli ricostruiti in epoca rinascimentale con al centro un cortile. Si trova presso il rione denominato portino o castello. In questo sito si riconoscono un edificio residenziale a due piani cioè il palatium, un rettangolo irregolare avente le dimensioni di circa 12 x 9 metri (misure prese sui lati più lunghi) la parete di Nord-Est, quella esposta sul lato più vulnerabile del castello, ha quasi due metri di spessore, sulla base di questa parete e di quella opposta (sono le pareti di 12 metri) si possono tutt’oggi notare notevoli porzioni di muro a sacca rivestito con corsi orizzontali e paralleli di pietre calcaree locali biancastre sbozzate a squadro (filarotti). In origine e nella sua interezza così doveva essere costruito questo complesso architettonico residenziale e difensivo allo stesso tempo. Vi è inoltre un edificio turriforme, cioè la turris, (che lo sia stato è provato, oltre che dalla forma, anche dalla tipologia costruttiva dei solai interni, cioè a “volta a botte” con mattoni) un rettangolo avente le dimensioni di 6 x 5 metri (misure prese sui due lati tutt’oggi rivestito ancora a filarotto). I due edifici anticamente risultavano essere chiusi da due muri a sacca rivestiti a filarotto, su quello ad ovest sorgeva una porta, oggi è parzialmente richiusa ed è mutila di arco.

[11]: La cosiddetta “buca di Pietro Pinca”, localmente e materialmente identificata. Questa, in realtà, dovrebbe essere stato un ipogeo tipico toscano, posto nelle sotterranee cantine del Castagnolo. Si tratta di un sistema di immagazzinamento e conservazione dei cereali, conosciuto sin dall’epoca romana e rimasto in uso fino alla fine dell’ottocento (fonte: articolo di Claudia Cinquemani Dragoni sul mensile, “Le antiche dogane” del 2008, La fattoria del Castagnolo. Un antico castello e la sua misteriosa “buca di Pietro Pinca”). Un’improbabile diceria tramandata nei secoli dagli abitanti del Castagnolo, parla di un misterioso cunicolo posto nei sotterranei dell’edificio principale (si tratta delle “viscere” del famoso trabocchetto di Pinco), collegante questo con una località rurale posta nel territorio di Stribugliano e ad alcuni chilometri da esso.

[12]: A 500 metri circa, in linea d’area dal Castagnolo. Questo torrente nasce al di sopra dell’abitato di Stribugliano, a circa 900 metri s.l.m.. Cartina topografica I.G.M.I, foglio n°320 sez. III – Cinigiano, scala 1:25000, edizione 1992, ricognizione del 1989. Anche l’ultimo pranzo al Castagnolo è stato ricostruito e colorito da chi scrive.

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

CESARE PAVESE