Il prato della Contessa

Tratto dal libro:
“LA COMUNITA’ DI ROCCALBEGNA” di Ippolito Corridori, A.T.L.A, Pitigliano (GR), 1975, pagg. : 243-244-245-246

(…) riportata dalla illustre scrittrice Fenenna Bartolomei nelle sue “Leggende maremmane”. (…) In quella stessa raccolta, la nostra leggenda reca il titolo “Il prato della Contessa” (non è altro che l’omonima stazione turistica che si trova vicino alla vetta del monte Amiata. N.d.Lauro Leporini). 

Gherarda, appartenente ad un ramo dei Conti Aldobrandeschi, Signori del Castello di Cana, era una giovane bionda e bella.

Per liberarsi dal caldo opprimente delle sue assolate campagne, soleva passare i mesi estivi sull’Amiata, presso l’Abbazia di San Salvatore. Il bellissimo luogo l’affascinava e la sua innata pietà trovava in quel Cenobio il clima più adatto per la contemplazione e la preghiera. I Monaci la circondavano di riguardi e di onori, anche per riconoscenza verso i suoi genitori che erano insigni benefattori del Monastero. Perchè nell’Abbazia si fosse trovata a suo agio, le avevano riservato un appartamento tutto suo, composto di ben dodici stanze. Lì, la fanciulla leggeva, studiava, ricamava. Quando voleva scendere nella Chiesa ad ascoltare la Messa o il salmodiare dei Monaci ne aveva tutta la libertà. Una volta al giorno sostava nella biblioteca ove poteva consultare migliaia e migliaia di volumi. Nella saletta attigua riceveva anche lezioni di cultura generale dai Maestri del Monastero, in conformità ai severi ordini del padre che la voleva istruita e colta. Nelle altre ore si avventurava per il bosco a cogliere fiori ed erbe e ad ascoltare il melodioso canto degli uccelli che indisturbati, volavano a frotte da un albero all’altro. Non mancavano escursioni sulla Montagna, né gite nei centri vicini ove avevano luogo feste e tornei.

Un giorno Gherarda volle andare più lontano, verso Siena, a Buonconvento, per prendere parte ad un interessante torneo ove figuravano i nomi dei più noti cavalieri dell’epoca. Preso il suo fidato cavallo bianco, in compagnia delle ancelle, la fanciulla diede a Buonconvento spettacolo di bellezza, di cortesia e di nobiltà. Più di un cavaliere rimase abbagliato dalla sua grazia e tra questi, più di tutti, il contino adalberto di Chiusi. Tra i due sbocciò una reciproca simpatia e dopo quella, l’amore… Ma venne l’autunno e Gherarda, richiamata dai suoi, dovette far ritorno al suo Castello di Cana. E lì per tutto l’inverno e per tutta la primavera successiva, in attesa di ritornare sull’Amiata. A Cana, è vero, si era divertita durante il carnevale danzando con i giovani più in vista, compresi quelli che venivano dai dintorni, specialmente da Cinigiano e da Roccalbegna, tutti innamorati perdutamente…ma ormai il suo cuore non viveva che per il contino Adalberto. Provvista di un più nutrito guardaroba e di molto denaro, Gherarda, anticipando il tempo, i primi di maggio, salì all’Amiata. Al padre aveva detto una bugia: aveva tanta voglia di studiare e i mesi estivi erano troppo pochi; bisognava dunque aggiungerne altri due, maggio e giugno.
In verità, di studiare aveva poca voglia; mota invece quella di divertirsi. Desiderando organizzare feste e tornei per proprio conto, senza disturbare la quiete del Monastero, chiese ai Monaci un luogo che le era piaciuto tanto. Un luogo esposto a mezzogiorno, verso il versante maremmano, attraversato dalla strada che ella percorreva nel venire da Cana. Ottenutolo senza alcuna difficoltà, la contessina fece tagliare i faggi sino a ricavarne un bellissimo e vastissimo prato, idoneo proprio allo scopo. In quel prato, che da lei prese il nome di “Prato della Contessa”, Gherarda cominciò a dar feste e tornei. Con i cavalieri accorsi da tutte le parti non poteva mancare il contino Adalberto…

Si alternarono così autunni, inverni, e primavere. L’amore vissuto dai due sembrava ormai concludersi con il sì dell’altare, quando improvvisamente venne a turbarlo una crudele legge del tempo… I Conti di Cana, per puri calcoli politici e d’interesse, promisero al figlia ad Orsino, conte di Pitigliano che ne era perdutamente innamorato. La notizia, che non ammetteva decisioni diverse, fu comunicata a Gherarda al termine dell’estate. La fanciulla si disperò, tentò invano di ribellarsi, ma alla fine dovette cedere alle irrevocabili proposte paterne. Prima di ritirarsi nel Monastero per attendere alla sua preparazione nuziale, Gherarda volle dare un’ultima festa nel suo prato. Fu una festa d’addio alla giovinezza e al suo amato Adalberto…

Le nozze di Gherarda con il Conte di Pitigliano furono celebrate nella Chiesa dell’Abbazia tra gli squilli delle chiarine e le grida festose degl’innumerevoli invitati. Adalberto, disperato e infelice tentò di uccidersi, poi scelse la via più facile per dimenticare tanta amarezza: chiese all’Abate di essere accolto monaco nell’Abbazia. Gherarda lo seppe e chiudendo nel cuore il segreto, chiese al marito la possibilità di soggiornare almeno una volta l’anno, per un intero mese, presso l’amato Monastero, ove ancora i Monaci le avevano lasciate le dodici stanze. Le venne concessa. Così durante il mese di settembre, mentre il conte di Pitigliano poteva attendere meglio ai piaceri della caccia, la giovane moglie poteva dedicarsi alla meditazione e alla preghiera lassù, nella cara Abbazia… Non solo Gherarda potè riprendere i suoi studi, pregare e cantare le lodi del Signore, ma ebbe modo di rivedere, e spesso, Adalberto… 

La leggenda tuttavia insiste sulla virtù della Contessa. Dopo aver invitato il monaco ad un appuntamento, con l’ultimo bacio, gli diede in dono un calice d’oro e una bibbia. Poi Gherarda ritornò a Pitigliano per essere sposa e madre esemplare.

Di Adalberto si seppe più tardi che era partito per l’Oriente, dal quale non fece più ritorno. Le ombre dei due sfortunati amanti sono rimaste tuttavia al Prato della Contessa. Si rivedono nelle notti lunari, portate da un faggio all’altro, sulle ali lievi del vento…

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

CESARE PAVESE